A cura di Fabio Comacchio, partecipante al viaggio solidale

L’incontro con le donne della Cooperativa Wawoto Kacel mi ha fatto pensare che, a volte, osserviamo solo una parte di ciò che vediamo e, quindi, ci sfugge l’aspetto più importante.

Siamo stati accolti in Cooperativa con un caloroso benvenuto, con sorrisi entusiasti e sguardi felici. Abbiamo visitato ogni reparto produttivo: il laboratorio di maglieria, pieno di gomitoli colorati con gli appunti tecnici e le istruzioni di lavoro; il reparto delle collane nel quale le donne si destreggiavano, con finissima abilità e velocità, nell’infilare le perline una dopo l’altra per la creazione di gioielli; in un’altra stanza c’erano ad asciugare i tessuti appena dipinti a mano. Le donne ci hanno salutato, senza sospendere il lavoro. Mia moglie ha invitato una donna seduta a terra ad alzarsi e lavorare sul tavolo: lei ha ringraziato sorridendo e rispondendo che stava meglio sulla stuoia, com’era abituata fin da piccola.

A un certo punto della visita, da uno dei reparti arrivava un rumore meccanico, sordo, che si ripeteva, ripeteva, ripeteva… Cosa poteva essere? Davanti a noi un telaio di legno per la tessitura, con spoletta a mano, come si usava un tempo. Mi sono domandato se forse non sarebbe stato meglio avere un telaio meccanico, ma forse era proprio questo che mi stava sfuggendo: questo progetto mette al centro la persona e non la produttività e l’efficienza, così come noi del nord del mondo intendiamo.

Questo piccolo dettaglio lo abbiamo percepito meglio quando abbiamo dialogato con tre donne: ci hanno spiegato come sono organizzate, il senso e la mission della cooperativa. Si tratta di donne con differenti problemi e quindi estremamente vulnerabili, che da sole non ce la fanno a vivere degnamente: sieropositive, mamme senza marito e con molti figli a carico.

In Cooperativa, oltre al lavoro, queste donne ricevono la possibilità di essere ascoltate da persone con i loro stessi problemi e da operatori capaci di supportarle nelle loro fatiche. Grazie alla collaborazione con l’ospedale St. Mary Lacor, hanno la possibilità di ricevere supporto medico e farmaci adeguati: qui l’HIV è davvero molto diffuso.

Amaro Filda ha 41 anni e lavora in cooperativa dal 2008 ed è vedova da 2010. Grazie a questo lavoro è riuscita a pagare la scuola ai tre figli, uno di questi ha già finito l’università. Ha avuto la possibilità di ricevere le cure adeguate perché sieropositiva. A casa possiede un campo che coltiva, quando non è in cooperativa, per dare da mangiare alla famiglia. Il suo sguardo ha incrociato il nostro e con un leggero sorriso ci ha trasmesso che è felice di raccontare com’è potuta tornare a vivere con dignità.
Prima della cooperativa viveva a casa isolata dalla famiglia e dalla comunità perché malata, e ora invece “vive”!

Dopo aver ascoltato queste storie penso: “l’idea di la produttività dov’è finita?”. Forse, senza forse, queste storie ci vogliono ricordare che per rincorrere gli obiettivi di efficienza e produttività noi stiamo perdendo pezzi di umanità. È questa la grande lezione che mi porto a casa da questo prezioso incontro.

Adesso, guardando questi oggetti fatti a mano dalle donne, ricordo i loro sorrisi, la loro fierezza nel poter contribuire all’economia famigliare e al miglioramento della Cooperativa, la loro gratitudine per aver recuperato le loro vite, penso che i loro manufatti siano davvero il prodotto della loro bellezza!